La paura di tornare a vivere
Attendiamo da più di un anno di lasciarci alle spalle la pandemia e le sue conseguenze. Ma ora che avvistiamo in lontananza l’agognata normalità, un po’ ne abbiamo paura. Cosa fare?
In questi ultimi giorni stanno arrivando alla Posta del Cuore di Eve La Plume (eve@burlesque.it) diversi messaggi che sollevano problemi molto simili. Abbiamo scelto quello di Sara, in rappresentanza anche degli altri.
Cara Eve,
ora che quasi tutta l’Italia è in zona gialla, sembrano tutti contenti di ricominciare la vita. Io però sono a casa senza il coraggio di uscire.
Non è solo per il timore del covid, è per una sensazione di blocco e di svogliatezza generale. Ma come fanno gli altri?
~ Sara
Cara Sara,
tendiamo a sentirci soli con i nostri malesseri ma questa volta posso dire con certezza che sei in buona compagnia.
All’inizio di questa vicenda eravamo tutti caricati a molla a scalpitare davanti alla porta di casa e pareva che ci dovessero legare al termosifone per impedirci di schizzare in strada. Avevamo la tabella di marcia della nostra vita frenetica appuntata sulle nostre agente stressate e un sottofondo interiore a reclamare il suo rapido svolgimento. Poi abbiamo provato la strana sensazione di spuntare una a una le cose non fatte, quelle non fattibili e quelle che fino all’ultimo speravamo di poter fare.
I primi tempi qualcuno ha ripreso fiato e ha trovato nuovi spunti nel cercare di gonfiare l’attesa utilizzando tutto il lievito disponibile sul territorio nazionale sfornando ogni sorta di riconciliante carboidrato.
Poi l’entusiasmo da novelli panettieri si è esaurito, l’agenda si è definitivamente svuotata e la nostra vita è rimasta congelata in attesa.
Non parlo di tutte le categorie lavorative, alcune lo sappiamo hanno lavorato il doppio di prima, ma di certo posso parlare di quelli come me, che hanno perso o rimandato al giorno del “chi vivrà vedrà” il proprio lavoro.
Sono stati mesi di attesa, in cui piano piano ci siamo impegnati a riscoprire prima le piccole cose, poi quelle piccolissime fino a munirci di metaforici microscopi per trovare qualcosa nel nulla.
Poi il nulla è diventato famigliare.
Se guardo indietro agli ultimi mesi partendo da quel capodanno che raccoglieva speranze e buoni propositi, vedo giorni tutti uguali accompagnati da lugubri notizie serali.
Ora gli arcobaleni dell’“andrà tutto bene” sono sbiaditi e impalliditi davanti all’evidenza e nessuno osa più cantare sotto la doccia, figuriamoci sui balconi.
I miei amici creativi abituati a rincorrere stimoli in giro per i mondo hanno esaurito l’estro e c’è chi mi racconta con ingenuo stupore di non avere più spunti, ora che i viaggi più avventurosi si limitano al percorso tra il supermercato e il tabaccaio. I musicisti con i quali ho collaborato negli anni scrivono post in cui dicono di non riuscire più a prendere in mano gli strumenti e nemmeno di ascoltare la musica che li ispirava. Io stessa mi accorgo di guardare il mondo attraverso un vetro smerigliato in cui tutto è confuso e contorto.
Non è sofferenza il sentimento che ci accomuna, è una fredda mancanza di gioia.
Ora che tutto riparte e con cautela veniamo richiamati alla vita, ci sentiamo fragili e impreparati, impauriti e senza grinta.
La porta è aperta e tanti di noi rimangono sulla soglia.
E cosa fare?
Prima di buttarci in progetti di socialità ambiziosi, cominciamo con l’invitare un amico a bere un caffè nel bar più vicino a casa, che, dopo mesi di isolamento e di nulla cosmico, parrà di aver scalato una montagna.
Cerchiamo di riemergere con delicatezza rispettando il nostro sentire, imponendoci solo quello che il nostro buonsenso ci fa accettare senza forti reticenze e soprattutto senza pensare di essere soli.
Il resto poi verrà da sé.
Non dobbiamo preoccuparci se siamo titubanti nel riaffacciarci alla vita, dovremmo preoccuparci se in un momento storico così drammatico fossimo gioiosi e spensierati.
~ Eve La Plume